femminicidio

Una riflessione sul femminicidio

Ci sono cose di cui non vorrei scrivere, perché vorrei che non esistessero. Che non fossero un argomento. Nel quasi 2022, vorrei non dover fare ancora la strada per rivedere culturalmente la nostra sensibilità collettiva in materia di violenza di genere, vorrei che potesse essere ritenuto patrimonio condiviso che la violenza è un concetto qualitativo, non quantitativo: un po’ di violenza non è meno grave di tanta violenza.

Ci sono cose di cui non vorrei scrivere, perché vorrei che non esistessero. Che non fossero un argomento, come il femminicidio.

 

Nel quasi 2022, vorrei non dover fare ancora la strada per rivedere culturalmente la nostra sensibilità collettiva in materia di violenza di genere, vorrei che potesse essere ritenuto patrimonio condiviso che la violenza è un concetto qualitativo, non quantitativo: un po’ di violenza non è meno grave di tanta violenza. Non è come lo sgarro alla dieta, che una tantum si può fare e non è grave. Ci sono cose che gravi lo sono e basta e anche solo metterlo in dubbio, le rende ancora più pericolose.

 

Il 25 novembre non è una data diversa dalle altre. Non si tratta di un giorno in cui essere più attenti, rispettosi o più sensibilizzati. È solo l’occasione di dire una volta in più che la violenza contro le donne nel nostro Paese ha ormai i contorni strutturati del fenomeno, con cui abbiamo – con scarsi risultati – a che fare da trent’anni.

 

Il dibattito sulla violenza maschile contro le donne è cresciuto, infatti, in Italia negli ultimi anni e ha prodotto numerosi interventi legislativi che sono andati in un senso perlopiù repressivo del fenomeno, con pene più severe per gli autori, cercando di garantire giustizia certa, stanziando nuovi fondi per le case in cui possano trovare rifugio le donne maltrattate e i loro bambini, modificando i termini per sporgere denuncia.

I dati

Benissimo, un passo è stato fatto, ma si tratta sempre di misure post hoc. I dati relativi al femminicidio, in Italia, sono pressoché costanti negli ultimi anni. Come riporta Carlotta Vagnoli, nel 2015 sono state 143 le donne vittime di femminicidio, nel 2016 149, nel 2017 132, nel 2018 141, nel 2019 111, nel 2020 112.

 

Questo significa che, se pensiamo all’anno scorso, c’è stato in media nel nostro paese un femminicidio ogni tre giorni. L’andamento pressoché lineare di questi numeri corrisponde a una tendenza culturale, per cui è prevedibile che ogni anno un numero indicabile di donne perderà la vita in un femminicidio.

Cosa significa femminicidio?

Ma perché si usa il termine femminicidio? Spesso quando si parla di femminicidio, molte persone disapprovano il termine perché disconoscono la specificità del fenomeno.  È una forma di violenza, è una forma di omicidio – si sente dire – perché farne uno status separato? É un tipo di obiezione che proviene da persone probabilmente in buona fede, magari lontane dai contesti operativi, sulla quale però è bene fare chiarezza.

 

Quando parliamo di femminicidio non stiamo semplicemente dicendo che è stata uccisa una donna. Il femminicidio non indica il genere della vittima, ma che una donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette quella violenza. In una società come la nostra, chi uccide la sua compagna o ex perché incapace di accettare la sua volontà di lasciarlo o autodeterminarsi commette un femminicidio.

 

Chi aggredisce e causa la morte di una ragazza sconosciuta per strada perché intimamente convinto di poter disporre del corpo delle donne a suo piacimento commette un femminicidio. Il femminicidio indica, pertanto, il movente di un omicidio: le donne vengono uccise in quanto donne, e nello specifico in quanto donne libere. Libere di amare chi vogliono, libere di uscire con chi vogliono, libere di vestirsi come vogliono. Libere. L’obiezione più frequente ogni volta che si parla di questi temi è “not all men”, non tutti gli uomini.

 

Ribattere dicendo che non tutto gli uomini sono colpevoli e non farlo, per esempio, quando in ballo ci sono altri tipi di crimini, è profondamente significativo. La stessa confutazione, infatti, non viene tirata fuori come difesa della categoria maschile tutta, quando il caso del giorno non riguarda le donne, come a dire che l’importante è smarcarsi da quel confronto specifico, per non dover riconoscere le donne come vittime di un sistema socioculturale che le danneggia dalla notte dei tempi.

 

Inoltre, dire che non tutti gli uomini uccidono/stuprano/ sono violenti è una mastodontica banalità oltre a essere il minimo sindacale. È evidente che non tutti gli uomini uccidono, violentano, molestano, aggrediscono, abusano fisicamente o psicologicamente le donne, né tutti gli uomini scambiano foto intime delle ex nelle chat con gli amici. Nessuna persona lo pensa.

La violenza di genere riguarda tutti

Ed è altrettanto evidente che ci sono tanti uomini che non si sognerebbero mai fare cose del genere. Il piano del discorso, infatti, non è che tutti gli uomini sono violenti, ma che la violenza di genere è un problema che riguarda ognuno di noi. Posto questo, la questione è che la precisazione “Not All Men” rischia di far passare gli episodi di violenza come casi isolati ad opera di “mostri” avulsi dalla società in cui viviamo. Come se la violenza fosse una questione del singolo, non sistemico.

 

Quando ci premuriamo di dire che “non tutti gli uomini” sono così stiamo in realtà dicendo “io non sono così, mio marito non è così”, tirandoci fuori dalla discussione. Stiamo difendendoci da una rappresentazione di noi stessi o degli uomini che conosciamo che non ci piace. E questa è la seconda ragione per cui dire “Not All Men” è problematico: perché al centro non c’è più la questione della violenza sulle donne, ma una difesa di genere basata sull’esperienza personale. Pertanto sì, è vero, non tutti gli uomini molestano, aggrediscono eccetera.

 

Ma tutte le donne sono esposte perché questo tipo di cultura esiste ed è radicata dentro ognuno di noi, uomini e donne. È per questo che la violenza di genere è tristemente democratica. Colpisce ogni donna, in qualsiasi contesto e senza tener conto di provenienza, ceto sociale e contesto culturale. La cosa più difficile da capire è proprio questa: siamo tutte costantemente esposte.

 

E anche gli uomini sono tutti costantemente esposti a una cultura che fa, ancora, della disuguaglianza di genere il maggior indicatore di potere. Qualche tempo fa una mia giovane paziente mi ha raccontato che la madre spesso le aveva accoratamente suggerito di cercarsi un uomo come il padre, adducendo come motivazione il fatto che “in fondo non l’aveva mai picchiata”.

 

In queste parole come in tante altre che ascolto fuori e dentro la stanza della terapia, è evidente un implicito: gli uomini, i padri, i mariti che non sono violenti meritano una medaglia al valore, sono un’eccezione a una regola implicita. Ecco, immagino che siamo ancora lontanissimi da uno sradicamento definitivo di certe regole implicite, ma parlarne, parlarne ancora, dare alle cose il loro nome è tra le cose da fare, per farlo.

 

Di Paola Dei Medici

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