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USA, Big Tech e Casa Bianca alleate in nome della censura?

A pochi giorni dalle elezioni di Midterm dell’8 novembre, negli Stati Uniti è scoppiato un nuovo bollente caso mediatico. Secondo un’inchiesta pubblicata su The Intercept, infatti, il Dipartimento per la sicurezza interna starebbe ampliando silenziosamente i propri sforzi contro notizie considerate pericolose.

Tra governo e colossi del digitale esisterebbe una collaborazione per arginare notizie considerate pericolose classificandole come “disinformazione”.

 

A pochi giorni dalle elezioni di Midterm dell’8 novembre, negli Stati Uniti è scoppiato un nuovo bollente caso mediatico. Secondo un’inchiesta pubblicata su The Intercept, infatti, il Dipartimento per la sicurezza interna starebbe ampliando silenziosamente i propri sforzi contro notizie considerate pericolose. Gli autori del reportage sono venuti in possesso di centinaia di documenti della Casa Bianca, in parte ottenuti tramite fuga di notizie dall’interno di agenzie federali, in parte – come riferisce Atlantico – declassificati nel corso di una causa per violazione dei diritti costituzionali intentata contro l’amministrazione Biden dallo Stato del Missuori.

 

L’aspetto più intrigante rilevato dall’inchiesta consiste nella relazione «molto intima» che si sarebbe instaurata tra le grandi piattaforme social media del Big Tech con il Federal Bureau of Investigation (Fbi) e con il Department of Homeland Security (Dhs). Dunque tra governo e colossi del digitale esisterebbe una collaborazione finalizzata a censurare notizie considerate pericolose classificandole come “disinformazione”.

Dal Covid all’Ucraina

 

La missione del Dhs di combattere la disinformazione, derivante dalle preoccupazioni sull’influenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016, ha iniziato a prendere forma durante le elezioni del 2020 e, subito dopo, nel corso del dibattito sull’utilità dei vaccini contro il Covid. I documenti raccolti da The Intercept rivelano l’evoluzione delle misure più attive adottate dal Dhs. Il Dipartimento avrebbe l’obiettivo – come si legge in un suo rapporto – di neutralizzare «informazioni imprecise» su un’ampia gamma di argomenti, come «le origini del Covid e l’efficacia dei vaccini, la giustizia razziale, il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e i dettagli del sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina».

Chi decide cos’è disinformazione?

 

La natura intrinsecamente soggettiva del concetto di disinformazione alimenta, secondo The Intercept, il rischio che questo lavoro di contrasto alle informazioni considerate pericolose possa avere declinazioni politiche chiudendo la bocca al dissenso. E già nell’agosto 2020, in piena campagna elettorale per le ultime presidenziali, NbcNews ha messo in luce una serie di incontri tra funzionari del governo e società tecnologiche statunitensi per discutere di come gestire la disinformazione. Erano presenti rappresentanti di Google, Facebook, Twitter e Reddit.

Il rischio censura di Stato

 

The Intercept ha raccolto il parere di Jonathan Turley, professore di Diritto alla George Washington University. «Ci sono sempre più indizi che funzionari dei poteri esecutivo e legislativo stiano usando le compagnie di social media come un surrogato per la censura», ha affermato Turley. «È indiscutibile che il governo non può fare indirettamente ciò che gli è proibito fare direttamente».

 

Secondo il docente di Diritto, «se i funzionari governativi stanno dirigendo o facilitando tale censura, solleva seri interrogativi sul Primo Emendamento». Anche l’American Civil Liberties Union (Aclu), come riporta Fox News, ha gettato ombre sinistre in questo senso. In un tweet l’associazione ha infatti scritto: «Il Primo Emendamento impedisce al governo di decidere per noi cosa è vero o falso, online o ovunque. Il nostro governo non può usare pressioni private per aggirare i nostri diritti costituzionali».

Il ministero della verità

 

Il dibattito negli Stati Uniti non è nuovo. Nell’aprile 2022 il Dhs lanciò la Disinformation Governance Board, che doveva occuparsi proprio di contrastare la disinformazione. La creatura dell’amministrazione Biden fu però attaccata dal Partito Repubblicano e da attivisti per la libertà d’espressione, soprattutto perché la sua direttrice designata, Nina Jankowicz, era considerata troppo politicamente schierata. Della Jankowicz si ricorda, ad esempio, che definì un «prodotto della campagna di Trump» la vicenda del personal computer di Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente degli Stati Uniti, da cui sono poi emersi legami oscuri con finanziatori stranieri.

Musk licenzia la censura

 

La polemica nei confronti della Jankowicz è scoppiata proprio nei giorni in cui Elon Musk annunciava la sua intenzione di acquistare Twitter in nome della libertà d’espressione e contro la censura che il social dell’uccellino blu ha adottato nei confronti di vari personaggi conservatori, tra cui l’ex presidente Donald Trump. L’acquisto da parte di Musk si è poi concretizzato e il miliardario ha deciso in questi giorni di licenziare i vertici della società non in linea con la sua politica di free speech. La prima testa che è idealmente caduta è quella di Vijaya Gadde, ex massimo dirigente legale e politico di Twitter, a capo del team che ha preso la decisione di eliminare il profilo di Trump dopo l’assalto a Capitol Hill. In passato Musk aveva definito «moralmente cattiva» e «sciocca all’estremo» la decisione di cacciare l’ex presidente degli Stati Uniti dal noto social.

 

Di Federico Cenci

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