Home / Lifestyle  / Ripartire attraversando il fiume della paura

Ripartire attraversando il fiume della paura

Pandemia

Siamo entrati nel lockdown ad inverno inoltrato e ne usciamo a maniche corte. Fino a tre mesi fa eravamo abituati a salutarci con un bacio, ora siamo costretti a sfiorarci con un gomito. Ovunque andiamo, oggi, nello spazio tra noi e gli altri si configura lo spettro del virus. Il mondo di “prima” non c’è più. Se esiste una vera sindrome post traumatica degli italiani sembra essere questa, la paura di non ritrovarsi, di non ritrovare fuori il mondo che conoscevamo prima. Perché è ormai chiaro che, a causa della pandemia, tra mascherine, distanziamento sociale, ingressi scaglionati, nulla è più lo stesso.

 

Un articolo apparso sul sito del World Economic Forum il 9 aprile scorso afferma che la tragica pandemia di covid-19 può essere configurata come “il più grande esperimento psicologico” di tutti i tempi che ha coinvolto, ad oggi, circa un terzo della popolazione mondiale.
L’autrice dell’articolo, la psicologa belga Elke Van Hoof, sottolinea che, mentre in tutto il mondo sono state predisposte le misure necessarie per contrastare il virus, poco o nulla si è fatto per attutire gli impatti psicologici del coronavirus sulle persone.

 

Le conseguenze della pandemia

Eppure, la rapidità e la pervasività della pandemia hanno obbligato ciascuno a confrontarsi in modo inaspettato con la propria fragilità. Chi dice che con l’occasione della pandemia è stato messo in atto un esperimento psicologico su larga scala non fa di certo riferimento alla fantasia di un Grande Sperimentatore nascosto nell’ombra, quanto al fatto che il covid ha determinato una condizione sociale per cui, per la prima volta negli ultimi settanta anni, ci siamo ritrovati tutti con responsabilità diverse a procedere a tentoni, alla cieca, in condizioni sconosciute e impreviste e spesso senza una direzione di marcia chiaramente riconoscibile.

 

Da febbraio, con il susseguirsi di decreti sempre più restringenti, siamo passati dall’epidemia alla pandemia e così ci è stato detto di non recarci più a lavoro, di non andare più a scuola, gradualmente di non recarci più in palestra, di non andare più a correre, o a fare l’aperitivo, di non incontrare più gli amici, né tantomeno i nostri cari. In questo crescendo di privazioni ci è stato detto di aver paura!

 

Padroni del Lockdown

Di fronte alla paura della morte, ci siamo affidati alle misure del governo e ci siamo abituati all’isolamento e alla quarantena. La priorità assoluta è divenuta preservare il bene primario, la vita.

In virtù di questo, fino a qualche settimana fa non eravamo chiamati a utilizzare schemi di ragionamento articolati, bensì a utilizzare modalità di comportamento determinate, in quanto ci veniva detto esattamente ciò che si poteva e non si poteva fare. Una situazione emotivamente difficile perché il nostro spazio di libertà era ristretto, ma anche decisamente facile dal punto di vista dei comportamenti: l’unico spazio di manovra era rappresentato dalle nostre abitazioni, ma dentro quello spazio avevamo piena capacità di controllo.

 

Come spiega il professore Lucidi, preside della facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, in una situazione di pericolo da una parte è più facile fare quello che ci viene detto, dall’altra nello spazio seppure circoscritto che ci veniva lasciato, con il lockdown noi eravamo assolutamente padroni, uno spazio interamente sotto il nostro controllo. Il nostro spazio personale era diventato un posto facilmente controllabile, con un numero di negoziazioni sociali limitatissimo e con un livello di organizzazione generale tutto interno.

 

 

Lo spazio attuale, invece, è completamente diverso, è nuovamente uno spazio negoziato, in cui nei fatti, di nuovo, la libertà di ognuno si ferma dove inizia la libertà dell’altro. Da un lato lo avevamo in parte dimenticato, dall’altro ce lo ritroviamo con una complicazione in più non da poco, in quanto dobbiamo affrontare una situazione in cui il fallimento di questa negoziazione sociale si associa ad un pericolo. Siamo cioè, oggi, come mai prima, chiamati a dover fare una cosa a cui non siamo mai stati abituati. È per questo che, sebbene avessimo così tanto desiderato il ritorno a una vita normale, arrivato il giorno X, molti di noi hanno preferito e continuano a preferire restare a casa.

 

Convivere con la pandemia

Per quanto apparentemente siamo chiamati a una vita che per certi versi richiama la vita di prima, lo scenario, dentro e fuori di noi, è nei fatti totalmente cambiato. Obbligati a convivere con un “nemico invisibile” e ancora indecifrabile, la voglia di tornare ad occupare le strade si intreccia continuamente con l’angoscia del contagio. Per questo motivo, costretti a dover scegliere la giusta posizione lungo il continuum tra il timore e il desiderio di socialità, l’incontro con l’altro da luogo generativo del legame è divenuto il luogo di un trauma potenziale. Meglio allora inspessire la frontiera, vivere al riparo, trasformare la propria casa in una tana.

 

Rispetto alla paura del contagio, per molti, l’evitamento sembra essere la soluzione più sensata. Ma a quale costo? Siamo veramente sicuri che rintanarci in casa possa essere la soluzione più efficace per ridurre la paura, legittima in ogni caso, che accompagna questo periodo? Sebbene l’evitamento possa sembrare una soluzione valida a breve termine, il problema in realtà non solo rimane, ma potremmo scoprire di sentirci ancor di più in preda all’angoscia, perché evitare l’incertezza ha come effetto retroattivo quello di aumentare le aree evocative dell’ansia.In altre parole, per quanto ci proviamo in ogni modo, non è possibile vivere evitando di lasciarci disturbare dalla vita.

 

Vivere pienamente

Vivere pienamente è saper stare nei luoghi traballanti. Siamo umani e in quanto tali non possiamo smettere di desiderare e il desiderio ci mette sempre nel territorio dell’incertezza e della novità. La nostra umanità non è fatta di numeri, ma di affetti, bisogni e speranze. Vivere è, di per sé, una forma di incertezza, il covid ce lo ha ricordato forte e chiaro. La questione, allora, non riguarda il proprio diritto a sentirsi impauriti, ma chiederci, semmai, se siamo intenzionati a consegnare la nostra vita alla paura. Sentirsi timorosi non costituisce un disvalore, ma neppure un conveniente corollario della prudenza, anche perché non sempre la paura equivale al pericolo.
Come fare allora?

 

La Ripartenza

La “Ripartenza”, così come viene definita, ha in sé il germe del cambiamento. Se siamo in grado di accoglierlo porterà ad una nuova sperimentazione di noi stessi, all’elaborazione di esperienze, alla ricerca di fatti, rapporti e situazioni a cui dare probabilmente un nome diverso, ma pur sempre degno di un significato. Come tappa di un viaggio che non si è mai interrotto, questo momento ci sta offrendo l’opportunità di interrogarci sulla strada che avevamo intrapreso, di chiederci se è ancora la nostra o se sono nati nel frattempo nuovi desideri, se possiamo cominciare a farci altre domande o se abbiamo bisogno di parole nuove per raccontarci.

 

Quello che stiamo vivendo è un un momento complesso che ci vede in prima linea. Ci sono richiesti passi lenti e avveduti che, si sa, sono faticosi, perché procedere con lentezza come ci richiede questa fase ci obbliga a soffermarci, a riflettere, ad avere chiaro il senso di responsabilità, a non dare per scontato quello che lo è sempre stato. Ci costringe ad attraversare il fiume della paura, con calma e sogni equilibrati, con il respiro lungo, gli occhi aperti e il coraggio nel cuore. Difficile? Probabilmente si!

 

Ma c’è un dato incoraggiante: in questo periodo che ha travolto le nostre vite ci siamo potuti rendere conto di avere una flessibilità e una capacità di adattamento che mai avremmo immaginato. Occorre ricordarcelo.

 

Di Paola dei Medici

NESSUN COMMENTO

POSTA UN COMMENTO