stanchi

La pandemic fatigue

È tornato tutto, come uno schiaffo. Sono arrivati i nuovi Dpcm, le conferenze stampa di Conte e le nuove misure per far fronte al contagio. Noi, però, non siamo più gli stessi di inizio Marzo. Ci sentiamo più stanchi e affaticati. Abbiamo provato sulla nostra pelle le cicatrici di un’amputazione sociale e affettiva, sappiamo cosa significhi essere spaventati da un futuro incerto e imprevedibile. Percepiamo nelle viscere la paura di non farcela, insieme all’angoscia di non sentirci protetti, non solo dal virus. Inoltre, se all’inizio della pandemia tutti eravamo più disposti a sacrificare e sacrificarci, ora siamo tutti intrisi di un risentimento contro chi le regole le ha evase o le ha scritte male.

È tornato tutto, come uno schiaffo. Sono arrivati i nuovi Dpcm, le conferenze stampa di Conte e le nuove misure per far fronte al contagio. Noi, però, non siamo più gli stessi di inizio Marzo. Ci sentiamo più stanchi e affaticati. Abbiamo provato sulla nostra pelle le cicatrici di un’amputazione sociale e affettiva, sappiamo cosa significhi essere spaventati da un futuro incerto e imprevedibile.

 

Percepiamo nelle viscere la paura di non farcela, insieme all’angoscia di non sentirci protetti, non solo dal virus. Inoltre, se all’inizio della pandemia tutti eravamo più disposti a sacrificare e sacrificarci, ora siamo tutti intrisi di un risentimento contro chi le regole le ha evase o le ha scritte male.

 

Se la prima ondata del virus è stata quella della paura, perché ci muovevamo in un orizzonte di impreparazione, essendo stati colti di sorpresa; la seconda sembra essere invece quella dell’angoscia. Una situazione psicologica diversa da quella della prima ondata proprio perché non ci coglie impreparati.

 

Eravamo pronti a riceverla?

La seconda ondata era, infatti, attesa. Abbiamo creduto di essere pronti a riceverla, di essere capaci di affrontarla, che se ci fossimo comportati correttamente sarebbe passata presto e invece adesso, ogni giorno, ci sembra di vedere il traguardo un po’ più lontano. Come se ci trovassimo tutti improvvisamente a scoprire di trovarci a fare i conti con qualcosa di massimamente reale che eccede l’ambito del possibile programmato.

 

A tingere di tristezza le nostre esistenze quotidiane non è, forse, oggi, la verifica sperimentale di una eccedenza dell’evento rispetto all’insieme delle pratiche che abbiamo posto in essere per neutralizzarlo anticipatamente? Quello che ci fa sentire così preoccupati e stanchi oggi non è forse la sensazione che tutte le misure adottate fino ad oggi sia state vane?

 

L’OMS ha posto recentemente l’attenzione su questa dimensione emotiva: la pandemic fatigue, ovvero quella sensazione per cui ci sentiamo come sospesi, in equilibrio su un filo sottile, esposti al vento e alla pioggia e senza un ombrello che ci tenga al riparo.

 

 

Stanchi ed affaticati

L’affaticamento che stiamo percependo è un fenomeno ben noto, per cui le persone, mentre all’inizio riescono a tirare fuori le loro migliori risorse di reazione, resistenza e anche solidarietà, dopo alcuni mesi che la storia va avanti si sgomentano, cominciano a pensare che hanno faticato tanto ma niente è servito a niente, e allora sai che c’è, se tutto è stato inutile, succeda quel che deve succedere.

 

Tuttavia, benché sentirsi oggi più stanchi e affaticati da quanto stiamo vivendo sia un diritto di tutti, legittimo e umano, questo, tuttavia, non deve indurci nell’errore di credere che tutti gli sforzi che abbiamo compiuto fino ad oggi siano stati inutili. Tutt’altro.

 

Lo sfinimento che sentiamo in questi giorni di contagi in aumento è lì a ricordarci che a volte quello che la vita ci presenta appare ingovernabile e che esistono anche cose che ci sovrastano. Se riuscissimo ad ammetterlo, se sapessimo riconoscerci la nostra umanità, la nostra vulnerabilità, la nostra mortalità, non saremmo costretti a inferirci colpe l’uno contro l’altro.

 

Siamo da sempre abituati a camminare di fianco alla malattia, alla difficoltà, al rischio della perdita. Il Covid ci ha ricordato forte e chiaro un fatto elementare: siamo vivi perché possiamo morire. Allora, l’unica libertà che possediamo veramente è fare qualcosa di ciò che la vita fa di noi. Quello che stiamo vivendo è un momento complesso che ci vede in prima linea.

 

Passi lenti e avveduti

Ci sono richiesti passi lenti e avveduti che, si sa, sono faticosi, perché procedere con lentezza come ci richiede questa fase ci obbliga a soffermarci, a riflettere, ad avere chiaro il senso di responsabilità, a non dare per scontato quello che lo è sempre stato. Per riuscirci bene, però, dobbiamo abbandonare ogni illusione e accettare il fatto che disponiamo a volte di poche risposte alle infinite domande che ci pone la vita.

 

Occorre, allora, come suggerisce A. Testa, sperare per il meglio, pianificare per il peggio (per tutti i possibili “peggio”), e restare focalizzati sulle priorità reali, senza perderci nei dettagli o farci travolgere dalle chiacchiere.

 

In altre parole, “occorre fare come si fa per mare, come si fa in barca per stivare scorte, per tenere all’asciutto provviste, ricavando dentro di noi spazi vuoti, tane per custodire emozioni in vista dell’inverno e passioni in caso di burrasca, navigando così, a felicità di crociera, facendo sogni d’altura” (S.C. Perrone), conservando la capacità di guardare attraverso e oltre l’emergenza.

 

Di Paola dei Medici

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