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“Zoppicare” di Davide Khun Certosino

La recensione di Giovanni Chianelli

 

Succede come quando si parla con un non vedente. L’empatia galoppa e si ha la sensazione di non vedere più, o che tutti quanti attorno non vedano. Leggendo ‘Zoppicare’, romanzo di Davide Kuhn Certosino, capita una cosa simile: sembra che le persone attorno prendano a claudicare, ad arrancare su un gamba sola. Perché nella sua realtà distopica, ambientata in un mondo tanto lontano da aver dimenticato anche la Bibbia, zoppicano tutti. Sono nati con la menomazione addosso. E quasi tutti vorrebbero, invece, camminare normalmente.
Quasi, perché c’è un gruppo di contestatori, eversivi sui generis, i “realisti”, che all’utopia della camminata non credono. Non credono alle leggende su presunti corridori norvegesi, alla trasmissione ‘Misterwalker’ che propaga l’ideologia di un futuro su due piedi, e giammai alle cure che ammannisce la sinistra palestra ‘Khod’by’, costoso ritrovo di ricchi sognatori. Perché il sistema messo su dall’autore prevede che siano i surrealisti a trovarsi dalla parte dei potenti mentre i conservatori, che affrontano la vita per come è, oscillante, a stare dietro le barricate.
Intanto, in un mondo che zoppica proliferano le multinazionali che producono ascensori e tapis roulant, e alcuni suoi rappresentanti incroceranno i protagonisti della storia, i fratelli Jevhen e Diana, insieme agli amici Kira e Ruslan. Sono le stesse aziende che istigano le persone a sperare in un’improbabile guarigione e a manipolare i media anche quando quella Bibbia sconosciuta verrà ritrovata, e con questa i suoi miracoli. «Alzati e cammina, nel nome di Gesù Cristo» leggono gli ignari abitanti. Crescono speranze attorno alla parabola, c’è chi usa la formula magica ma crolla miseramente al suolo.

 

 

Da Palahniuk a Huxley

Il titolo fa venire in mente che l’autore si possa essere ispirato a ‘Soffocare’ di Chuck Palahniuk, anche se le atmosfere sono diverse, più vicine ai “postmondi” lisergici di Aldous Huxley. E forse la palestra ha qualcosa della retorica di ‘Fight club’, sebbene i risultati degli allenamenti siano molto distanti. Certosino crea una metafora dura che fa immediatamente chiedere al lettore: perché l’umanità è finita così? Forse le profezie sull’inerzia del fisico e dello spirito che i nostri tempi favorisce si sono avverate: ormai l’uomo si trascina faticosamente su se stesso. Come se avesse preso forma l’intuizione di Levinàs sul rifiuto del corpo, aspetto che per sua stessa dichiarazione il filosofo ebreo condivide con Hitler – con esiti, questi sì, diametralmente opposti.
«Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. La voce misteriosa del sangue, gli appelli all’eredità del passato di cui il corpo è l’enigmatico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla soluzione di un Io sovranamente libero» scrive Levinàs.

 

L’essenza dell’uomo nella fisicità

Insomma, non soltanto lo spirito perde la sua superiorità sul corpo, ma ne rimane asservito. Il postulato è che l’essenza dell’uomo non risieda nell’esercizio della libertà, ma nel riconoscimento dell’ineluttabile incatenamento alla fisicità. Così, tutte le forme di società contemporanee si illudono di essere fondate sull’accordo di libere volontà: al contrario, appaiono non solo fragili e inconsistenti, ma anche false, menzognere. La verità è ancorata alla carne: ed è meglio che le persone se ne rendano conto, sembrano ammonire i personaggi del romanzo.
Ne viene fuori una narrazione molto compatta, che accompagna il lettore verso un universo remoto eppure piuttosto familiare. Forgiato da un’immaginazione che inquieta, per nulla accomodante. Un anti-idillio che incombe, dalle pagine di un romanzo fresco e veloce, con la potenza di una voce letteraria, capace di creare daccapo la realtà.

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